Esistono da sempre, in ogni sport, quei ragazzi che fin dalla tenera età sembrano baciati dal talento più cristallino, quelli che sembrano destinati a fare molta, moltissima strada. Il talento, per quanto puro, da solo però non basta: prendete LeBron James, un talento come pochissimi se ne sono visti nella storia della pallacanestro, ma al contempo uno che ha avuto la giusta mentalità per rimanere in NBA per 20 anni, mantenendo livelli altissimi. Ecco: per arrivare a quei livelli, più del talento stesso è importante la mentalità.

Quando parliamo di mentalità non possiamo non pensare che a Kobe Bryant e alla sua leggendaria Mamba Mentality, fatta di tenacia e continua voglia di migliorarsi, frutto di un’etica lavorativa che in pochi hanno avuto e che gli ha permesso di diventare quello che tutti sappiamo.

I primi approcci con la pallacanestro

Kobe Bryant nasce a Philadelphia il 23 Agosto del 1976, figlio del cestista Joe, detto Jelly Bean, all’epoca giocatore dei 76ers. Proprio il continuo viaggiare dovuto al mestiere del padre porta Kobe a muovere i primi passi da cestista in Italia, nazione in cui il padre militerà dal 1984 al 1991 con le maglie di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia ed infine Reggio Emilia. I racconti vogliono che già a quell’età Kobe avesse il desiderio di arrivare un giorno a giocare in NBA e che venisse deriso dagli altri ragazzi quando esternava tutto ciò.

Kobe Bryant torna nella propria città natale per frequentare le scuole superiori presso la Lower Merion High School, con la quale vince il titolo statale. Una volta terminato, nel 1996, il liceo Bryant rifiuta la corte di college estremamente prestigiosi come Duke o Kentucky scegliendo di rendersi eleggibile per il draft NBA.

L’approdo in NBA

Il draft del 1996 si ricorda come uno dei più ricchi di talento di tutta la storia NBA: ci sono infatti dei futuri hall-of-famer come Allen Iverson, prima scelta assoluta, Ray Allen che i Timberwolves scelgono alla 5 e poi scambiano con Stephon Marbury, draftato una scelta più in alto, oltre a Steve Nash, scelto dai Suns con la 15.

Kobe Bryant verrà scelto dagli Charlotte Hornets alla numero 13, ma verrà immediatamente scambiato ai Los Angeles Lakers per Vlade Divac. In quella stessa offseason infatti i Lakers si erano assicurati il centro più dominante dell’epoca (e non solo): Shaquille O’Neal.

L’esordio di Bryant avviene, a 18 anni e 72 giorni (allora il più giovane della storia), il 13 novembre dello stesso anno, contro i Minnesota Timberwolves: un tiro preso (e sbagliato), un rimbalzo ed una stoppata in 6 minuti e 22 secondi in campo. Il numero 8 appare piuttosto acerbo, ma le sue cifre cresceranno con l’avanzare della stagione, che chiuderà con 7.6 punti, 1.9 rimbalzi ed 1.3 assist venendo inserito nel secondo quintetto matricole.

I Los Angeles Lakers però sono già una squadra attrezzata e trovano l’accesso ai Playoff. Qui l’esordio di Kobe dura solo 46 secondi, nei quali segna 2 punti. È però nel secondo turno che Bryant mette in mostra la sua personalità, essendo l’unico negli istanti finali della decisiva gara 5 contro i Jazz (che vinceranno 4-1) a prendersi dei tiri (seppur sbagliati) attirando sul coach gialloviola le critiche di Nick Van Exel, ma guadagnandosi il rispetto di Shaquille O’Neal, che sosteneva fosse finita così perchè era l’unico con il coraggio di prendersi quei tiri.

La crescita costante

Il debutto di Bryant nella stagione 1997/98 è di tutt’altro tenore: 23 punti ai Jazz vice campioni in carica. Arrivano anche le prime partite da 30 punti: prima ai Dallas Mavericks e poi (33) nella sconfitta contro i Chicago Bulls di Jordan ed il pubblico comincia ad apprezzarlo maggiormente inserendolo per la prima volta nel quintetto titolare dell’All Star Game, in una stagione chiusa con 15.4 punti, 3.1 rimbalzi e 2.5 assist a partita, che gli valgono il secondo posto al premio di sesto uomo dell’anno dietro a Danny Manning. L’anno seguente arriva anche la titolarità e le sue cifre salgono ancora a 19.9 punti, 5.8 rimbalzi e 3.3 assist, ma i Lakers si fermano prima alle finali di conference (4-0 dai Jazz) e poi al secondo turno (4-0 dagli Spurs).

I primi titoli con Shaq

Nell’estate del 1999 a guidare i Lakers arriva Phil Jackson, reduce da 2 three-peat coi Bulls di Jordan. Kobe ritrova l’All Star Game dopo un anno di assenza e chiude la stagione regolare con 22.5 punti, 6.3 rimbalzi e 4.9 assit. I Lakers dominano la regular season con 65 vittorie ed approdano ai playoff. Kobe griffa subito il 3-2 ai Kings con 3 partite sopra quota 30 punti, per poi rimanere più silente nella serie contro i Suns, sconfitti 4-1, ed anche nella successiva finale di conference contro i Portland Blazers, fino ad una gara 6 da 33 punti, che non serve però a chiudere la serie, vinta dai Lakers 4-3 nella partita successiva. Si aprono così le porte delle NBA Finals, contro gli Indiana Pacers, con il numero 8 che autografa le ultime 2 vittorie gialloviola con 28 e 26 punti ed i Lakers che si imporranno per 4-2.

Repeat e three-peat

L’anno successivo vede Bryant andare ad insidiare la leadership realizzativa di O’Neal, creando artriti tra i 2, fortunatamente riappacificati. I Lakers si fermano al secondo seed e da tutti sono dati in difficoltà per i playoff; niente di più sbagliato: 3-0 ai Blazers, 4-0 ai Kings e 4-0 agli Spurs e percorso netto fino alle Finals. Servirà una performance magistrale di Allen Iverson (48 punti e l’iconico step over Lue) in gara 1 per infliggere la prima sconfitta in post season ai Lakers, sarà però anche l’unica: i 31 e 32 di Kobe nelle due gare successive spianano la strada al 4-1 finale dei Lakers sui 76ers per il repeat.

L’annata 2001-02 vede Kobe vincere il premio di MVP dell’All Star Game ed andare per la prima volta sopra 25 punti di media in stagione. I Lakers, ancora una volta secondo seed, si liberano facilmente di Blazers (3-0) e Spurs (4-1), ma alle Conference Finals trovano i Kings in una serie molto combattuta, decisa soltanto dai 31 e 30 di Kobe in gara 6 e 7. Decisamente senza storia sono invece le NBA Finals: i Nets subiscono uno sweep ed i Lakers chiudono così il three-peat.

I nuovi attriti Bryant-O’Neal

La stagione successiva è la prima sopra i 30 punti di media per Kobe, anche grazie ad un mese di Febbraio da 40.6 punti a gara, con un a striscia di 13 partite oltre i 35 punti. La striscia di titoli dei Lakers si interrompe però dopo una prematura eliminazione al secondo turno con i San Antonio Spurs.

Il 2003-04 è l’anno di Gary Payton e Karl Malone in maglia Lakers, a formare all’apparenza un autentico dream team. I gialloviola chiudono la stagione al secondo posto ad Ovest con 56 vittorie e conquistano le Finals superando 4-1 i Rockets e 4-2 prima gli Spurs e poi i Timberwolves. Alle NBA Finals però qualcosa va storto ed i Lakers capitolano sotto la durissima difesa dei Detroit Pistons con un sonoro 4-1.

La separazione da Shaq

Dopo la batosta delle ultime Finals Kobe testa il mercato dei free agent, decidendo poi di rifirmare coi Lakers, cosa che incrina definitivamente i già burrascosi rapporti con Shaquille O’Neal, che non accettava assolutamente di fare da secondo violino a Kobe, malgrado le fasi di carriera opposte, portandolo così a finire ai Miami Heat.

Vista la dipartita anche di coach Phil Jackson e di altri pezzi importanti della squadra che completò il three peat Bryant divenne a tutti gli effetti la stella della squadra, trovando grandi stagioni dal punto di vista personale, avare però di titoli di squadra. Nella stagione 2004-05 ad esempio i Lakers non si qualificano nemmeno per i playoff, ma Bryant nella partita contro i Dallas Mavericks mette in piedi uno show realizzando 62 punti in 3 quarti (contro i 61 degli avversari) e scegliendo di non tornare in campo per l’ultimo quarto.

Il 22 gennaio 2006 questa prestazione verrà ritoccata: i Lakers nel primo tempo soffrono inspiegabilmente contro i Raptors arrivando 63-49 all’intervallo, con Kobe a quota 26, che nello spogliatoio sprona i suoi per cercare di ribaltare l’inerzia della partita. I Lakers rimontano già con un terzo quarto da 42-22 per poi chiudere con l’ultimo da 31-19 per il 122-104 finale. Bryant ne segna 27… nel solo terzo quarto, poi altri 28 nell’ultimo. Kobe 55 – Raptors 41 dice il parziale del secondo tempo. Sono 81 in totale, la seconda miglior prestazione di sempre.

Le nuove vittorie e i premi personali

La stagione 2007-08 vede l’unico MVP vinto da Kobe Bryant, a coronamento di una stagione da 28.3 punti, 6.3 rimbalzi e 5.4 assist, con i Lakers che ritrovano la testa della Western Conference, anche grazie all’innesto, a stagione in corso di Pau Gasol. I 2 trascinano i gialloviola anche ai playoff: 4-0 ai Nuggets con 49 di Kobe in gara 2, 4-2 ai Jazz e poi 4-1 agli Spurs, giustiziati dai 39 di Bryant. Alle Finals va in scena la più classica delle rivalità NBA: ci sono infatti i Boston Celtics di Pierce, Allen, Garnett e Rondo, che però piegano i Lakers 4-2.

In estate Kobe vince l’oro alle olimpiadi di Pechino con la nazionale, il cosiddetto redeem team, che chiude da imbattuto vendicando così lo smacco di 4 anni prima in cui Team USA si fermò al gradino più basso del podio, dopo la sconfitta in semifinale contro l’Italia.

Il ritorno al titolo

La nuova stagione vede invece nuovamente Lakers e Celtics a guidare le rispettive conference, ma mentre i gialloviola superano Jazz (4-1), Rockets (4-3) e Nuggets (4-2) grazie ad un Bryant da 30 punti di media ai playoff, i Celtics vengono eliminati dagli Orlando Magic per 4-3; saranno poi gli stessi Magic ad andare ad affrontare i Lakers, dopo aver sconfitto i Cavs privandoci di una sfida in finale tra Kobe Bryant e LeBron James. Le Finals sono però senza storia: 40 per Kobe in gara 1, 29 in gara 2, poi 31 e 32 nelle due successive ed infine 30 nella decisiva gara 5, che consegna il titolo ai Lakers ed a Kobe Bryant il suo primo MVP delle Finals.

Le Finals 2010

La rivincita del 2008 arriva 2 anni dopo: i Lakers col miglior record della Western Conference superano 4-2 i Thunder, 4-0 i Jazz e 4-2 anche i Suns, grazie ad una gara 6 da 37 punti di Kobe. Alle Finals ci sono nuovamente i Celtics di Garnett, Pierce ed Allen e Rondo.

Con i 30 di Kobe i Lakers si prendono gara 1, ma in gara 2 Boston risponde espugnando lo Staples coi 32 di Ray Allen, si va quindi al Garden, ma a spuntarla sono gli ospiti con 29 di Bryant; i Celtics vinceranno le successive 2 nonostante i 33 e i 38 realizzati da Kobe, tornati allo Staples e con le spalle al muro i Lakers schiantano i Celtics per 89-67 con Kobe che ne segna 26. Gara 7 invece è tiratissima, i Celtics provano a scappare a più riprese, toccando anche il +12, ma i Lakers nel terzo quarto rimontano dando vita ad un combattutissimo ultimo quarto che terminerà sull’83-79 per i padroni di casa, che vincono così il titolo: il numero 5 per Kobe, che è nuovamente MVP delle Finals.

Il declino

La stagione 2010-11 vede il quarto titolo di MVP dell’All Star Game, tra l’altro giocato proprio a Los Angeles, per Kobe, ma i Lakers mancano il three peat venendo eliminati dai Dallas Mavericks alle semifinali di conference.

Il 2011-12 è invece quello della mancata rivoluzione: i Lakers progettano una trade a 3 squadre con l’obbiettivo di affiancare a Kobe Chris Paul, ma David Stern la fa saltare. Kobe nel mentre supera Shaq al quinto posto all time nella classifica marcatori, ma i Lakers si fermano nuovamente alle semifinali di conference, superati 4-1 dagli Oklahoma City Thunder, nonostante 36, 38 e 42 punti di Bryant in gara 3, 4 e 5.

Nell’estate 2012 per Kobe arriva la seconda medaglia d’oro con Team USA alle olimpiadi di Londra, mentre la nuova stagione vede gli arrivi ai Lakers di Steve Nash e Dwight Howard. Il 30 Marzo Kobe supera Wilt Chamberlain al 4o posto all time tra i marcatori, ma appena 2 settimane dopo si romperà il tendine d’achille in un contrasto con Harrison Barnes, a seguito del quale tra l’altro andrà comunque in lunetta a segnare i 2 liberi che si era procurato.

L’infortunio costringe Kobe a saltare praticamente tutta la stagione successiva, nella quale giocherà appena 6 partite, che diventeranno 35 in quella dopo, nella quale il 14 dicembre del 2014 superò anche Michael Jordan (terzo) per punti segnati in NBA. Il 29 Novembre 2015 visti i suoi continui problemi fisici annuncia il ritiro al termine della stagione. Nella sua ultima partita Bryant lascerà la pallacanestro alla sua maniera: segnando 60 punti agli Utah Jazz, il massimo per un giocatore al suo addio.

Il ricordo ed i trofei

La bacheca di Kobe Bryant riflette pienamente la caratura del giocatore di cui stiamo parlando: 5 titoli NBA, 2 MVP delle Finals, un MVP della regular season, 18 volte all star e 4 volte MVP (premio che oggi porta il suo nome) della partita delle stelle, 15 volte nei quintetti all NBA e 12 in quelli difensivi, oltre che 2 volte miglior marcatore della lega e terzo miglior realizzatore all time, dietro soltanto a Karl Malone e Kareem Abdul-Jabbar. A questo vanno aggiunti 2 ori olimpici conquistati con la nazionale ed una serie infinita di primati coi Lakers. Per Los Angeles fu talmente importante che venne instituita una giornata in suo onore: il Kobe Day, celebrato il 24 di Agosto dai numeri che ha vestito in carriera: appunto l’8 e il 24.

In ultimo non dimentichiamo l’introduzione nella James Naismith Hall of Fame, che purtroppo sarà postuma, perchè esattamente in questo giorno di 3 anni fa le serate (italiane) di tutti noi appassionati di pallacanestro venivano sconvolte dalla notizia della sua morte e di quella della figlia Gianna, avvenuta per un incidente in elicottero. La cerimonia di inserimento nella Hall of Fame avverà il 16 maggio del 2021, alla presenza della figlia maggiore Natalia e della moglie Vanessa. Proprio con il discorso di Vanessa Bryant, che trovate qui sotto, mi sento di concludere, nel modo migliore possibile, questo racconto: nel ricordo di Kobe non solo come sportivo, ma sopratutto come uomo, raccontato da chi lo ha vissuto più di chiunque altro.

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